C’è un urlo che lacera il silenzio irreale calato sulla movida di Palermo. È un urlo di disperazione, di incredulità, di un dolore così profondo da togliere il fiato. «Ma come si fa? Qual è la motivazione? Mi hanno distrutto la vita». Sono le parole strazianti della madre di Paolo Taormina, il ragazzo di 21 anni la cui vita è stata falciata da un proiettile mentre compiva un gesto di pace: tentare di calmare una rissa davanti al locale gestito con tanti sacrifici dalla sua famiglia.
Le sue domande, cariche di angoscia, restano sospese nell’aria pesante, senza trovare risposta. «Come si fa a sparare in testa a un ragazzo? Come faccio a vivere ora? Mi avete tolto la speranza». Attorno a lei, un abbraccio che tenta, inutilmente, di contenere un dolore incontenibile. Parenti e amici si stringono alla donna, cercando parole di conforto che non esistono di fronte a una tragedia così insensata.
La scena è surreale. Il pub, che fino a poche ore prima era un luogo di ritrovo, di musica e di risate giovanili, si è trasformato in un santuario improvvisato di dolore. Tanti ragazzi, gli stessi che frequentavano il locale e conoscevano Paolo, sono ancora lì, immobili, con gli occhi bassi. Testimoni silenziosi di uno strazio che è diventato collettivo, che appartiene a un’intera comunità che oggi si interroga su come una notte di svago possa trasformarsi in un incubo senza fine. Il dolore di una madre diventa lo specchio della fragilità di una città, lasciando una ferita che sarà difficile da rimarginare.