Un’aria diventata irrespirabile, carica di una tensione palpabile che serpeggiava tra le celle e i corridoi. Al carcere Pagliarelli di Palermo, la convivenza forzata tra i detenuti “comuni” e i tre giovani accusati della brutale strage di Monreale era diventata una miccia pronta a esplodere. Per questo motivo, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) ha disposto il loro immediato trasferimento in altri istituti penitenziari dell’isola.
Una decisione tanto necessaria quanto delicata, maturata in un contesto di altissimo rischio. Secondo quanto emerso, per Salvatore Calvaruso, Mattias Conti e Samuel Acquisto, i tre giovani dello Zen accusati del triplice omicidio avvenuto ad aprile, la permanenza al Pagliarelli significava una sola cosa: isolamento totale. Non per una sanzione disciplinare, ma come unica misura possibile per proteggerli.
All’interno delle mura di un carcere vigono codici non scritti, gerarchie ferree e un senso di “giustizia” parallela che non perdona certi crimini, specialmente quelli percepiti come più efferati o contro persone indifese. La gravità delle accuse mosse ai tre – aver aperto il fuoco e ucciso tre giovani a Monreale per una lite degenerata – li aveva resi bersagli facili, figure invise alla maggior parte della popolazione carceraria. Il rischio di un’aggressione violenta, di un linciaggio premeditato, era più che concreto.
Gli avvocati dei tre ragazzi avevano da tempo sollevato il problema: pur avendo diritto al regime di detenzione ordinaria, i loro assistiti non potevano di fatto partecipare alla vita comune del carcere senza temere per la propria vita. Una situazione che ha trasformato la loro detenzione in un isolamento di fatto, insostenibile nel lungo periodo e che ha messo sotto pressione l’intera struttura carceraria.
L’operazione di trasferimento, avvenuta nel massimo riserbo, ha visto i tre giovani lasciare Palermo alla volta di diverse strutture siciliane: Agrigento, Enna e Trapani. L’obiettivo è duplice: da un lato, garantire l’incolumità fisica degli accusati, che ora potranno vivere un regime detentivo ordinario in un ambiente meno ostile; dall’altro, allentare la pressione esplosiva accumulatasi al Pagliarelli, un istituto spesso al centro di tensioni e proteste.
Questo spostamento, puramente logistico e gestionale, non cambia di una virgola la loro posizione giudiziaria. I tre restano in attesa del processo, con accuse pesantissime che dovranno essere provate in un’aula di tribunale. Ma la decisione del DAP fotografa una realtà cruda e immutabile: dietro le sbarre, prima ancora della legge dello Stato, a dettare le regole è spesso la legge del carcere.



 
			
 
		 
		 
		 
		