La Corte d’Appello di Palermo mette un punto fermo sulla lunga vicenda legale che vede contrapposti Massimo Giletti, la Rai e una famiglia di Monreale. I giudici hanno confermato la condanna per diffamazione emessa in primo grado, respingendo il ricorso presentato dal noto conduttore e dalla televisione di Stato.
La storia inizia il 15 maggio 2016, durante una puntata della trasmissione “L’Arena” su Rai Uno. Nel corso di un acceso dibattito sui lavoratori forestali della Regione Siciliana, Giletti definì l’operaio Giuseppe Campanella, originario di Pioppo, come un soggetto appartenente a “un’importante famiglia mafiosa”.
Quelle parole, pronunciate in diretta nazionale, scatenarono l’immediata reazione dei familiari dell’uomo. Assistiti da un collegio legale composto dagli avvocati Salvino e Giada Caputo, Francesca Fucaloro e Anna La Corte, i Campanella avviarono un’azione legale, presentando certificati del casellario giudiziale per attestare la loro totale incensuratezza e l’estraneità a qualsiasi ambiente criminale. Nonostante le scuse pubbliche arrivate in seguito da Giletti, che ammise di aver commesso un errore per informazioni superficiali, la famiglia decise di andare avanti per tutelare la propria reputazione.
Il percorso giudiziario è stato duplice. Sul fronte penale, il processo per diffamazione aggravata presso il Tribunale di Roma si è concluso con la prescrizione. Sul fronte civile, invece, il Tribunale di Palermo aveva già dato ragione ai Campanella, riconoscendo il “contenuto fortemente diffamatorio” delle affermazioni di Giletti e condannando lui e la Rai a un risarcimento.
Giletti e l’azienda televisiva avevano impugnato quella sentenza, chiedendone l’annullamento e la restituzione delle somme già versate. La Corte d’Appello, però, ha rigettato completamente la loro richiesta. Nelle motivazioni, i giudici hanno sottolineato come le accuse mosse da Giletti fossero prive di “qualsiasi obbligo di preventiva verifica e controllo”, ledendo gravemente il diritto alla reputazione, alla dignità e al decoro dei familiari di Campanella.
“La Corte di Appello ha riaffermato un principio fondamentale”, ha dichiarato l’avvocato Salvino Caputo. “Chi usa un mezzo potente come la televisione, capace di influenzare milioni di persone, ha il dovere di effettuare un accertamento rigoroso delle fonti. La condotta irresponsabile del conduttore ha causato un danno gravissimo ai nostri assistiti, etichettandoli ingiustamente come una famiglia mafiosa”. La sentenza ribadisce che la libertà di cronaca non può mai prescindere dalla verità e dal rispetto della dignità delle persone.



