Ci sono notti che non finiscono mai, e quella tra il 26 e il 27 aprile è una di queste per Monreale. Eppure, quattro mesi dopo, un’altra notte ha provato a scriverne un finale diverso. Non con il frastuono della violenza, ma con il peso di un silenzio assordante, rotto solo dal fruscio dei passi e illuminato da centinaia di fiammelle di speranza.
Un corteo lento, composto, ha attraversato l’anima della città, ripercorrendo le strade fino a quella piazza che fu l’ultimo palcoscenico delle vite di Salvatore Turdo, Massimo Pirozzo e Andrea Miceli. Avevano 23 e 25 anni. Stasera, in quella stessa piazza, c’erano i loro coetanei, i loro genitori, i loro amici. C’era un’intera comunità che si è fatta scudo attorno al dolore incancellabile delle famiglie.
“Abbiamo voluto questa fiaccolata non solo per non dimenticare, ma per lanciare un messaggio che vada oltre”. A parlare sono i familiari delle vittime, con una lucidità che trasforma la sofferenza in un manifesto. “Le indagini sono quasi concluse e noi chiediamo giustizia, quella è la base. Ma non basta. Chiediamo un cambiamento profondo nella mentalità di chi non ha rispetto per la vita, di chi crede che la violenza sia una soluzione. Questa terra, la nostra Sicilia, merita di più”.
Le loro parole non sono solo un appello, ma una diagnosi precisa di un male che corrode. La strage di Monreale non fu un fulmine a ciel sereno, ma l’epilogo tragico di una rissa che ha visto altri due giovani feriti, tra cui un sedicenne. A premere il grilletto, secondo gli inquirenti, altri giovanissimi: Salvatore Calvaruso, Samuele Acquisto e Mattias Conti, di 18 e 19 anni. Una guerra tra ragazzi, finita nel modo più definitivo e assurdo.
Per questo, la marcia di Monreale è stata più di una commemorazione. È stata la richiesta di un patto educativo e sociale. Un atto d’accusa verso l’indifferenza e un grido di responsabilità collettiva, affinché il sacrificio di tre ragazzi possa, almeno, piantare il seme di un futuro in cui nessuna famiglia debba più vivere un simile strazio.