Colpo alla rete di fiancheggiatori del boss Matteo Messina Denaro in Sicilia. Il gup di Palermo ha emesso pesanti condanne, per un totale di oltre due secoli di carcere, nei confronti di 27 tra boss mafiosi, gregari ed estortori legati al superlatitante di Cosa Nostra.
Il maxiprocesso, istruito dalla Dda sulla base delle indagini del pm Piero Padova, ha portato sul banco degli imputati i vertici delle cosche mafiose che in questi anni hanno garantito appoggio logistico e operativo al padrino di Castelvetrano durante la sua trentennale latitanza.
In particolare, sono finiti sotto processo i clan egemoni nella zona tra Campobello di Mazara, ultimo rifugio conosciuto di Messina Denaro, Marsala e Mazara del Vallo. Nessuno degli imputati è stato assolto. La pena più alta, 20 anni di reclusione, è stata inflitta all’imprenditore Francesco Luppino, indicato dagli investigatori come il fiduciario del boss per la gestione degli affari illeciti e le nomine ai vertici delle cosche.
Le intercettazioni ambientali hanno provato il suo ruolo chiave nel garantire a Messina Denaro il controllo su appalti e aste giudiziarie pilotate. Un sistema di gestione affaristica dei clan che ha visto coinvolti diversi professionisti complici, finiti anch’essi sul banco degli accusati.
Tra i condannati anche Marco Buffa, che prima dell’arresto di Messina Denaro aveva messo in giro la voce che il superlatitante fosse in realtà morto. Un tentativo, secondo l’accusa, di sviare le indagini e depistare gli investigatori. Per Buffa 11 anni e 4 mesi di carcere.
Le intercettazioni hanno documentato i vani tentativi di un altro affiliato, Piero Di Natale, di mettere a tacere Buffa. “Non parlare in giro di questo fatto che hai detto tu che è morto…”, ammoniva Di Natale, ignaro di essere ascoltato. Anche per lui 16 anni di condanna.
Il processo ha inferto un duro colpo ai fiancheggiatori del padrino, smantellando la fitta rete di appoggi su cui Messina Denaro ha potuto contare per decenni. Nonostante la latitanza, il capomafia ha continuato a esercitare il suo potere criminale grazie a uomini di fiducia inseriti nel tessuto economico e sociale. Con questa sentenza viene decapitato il vertice delle cosche trapanesi, in attesa di assicurare finalmente alla giustizia il boss stesso.